L’esperienza di Salam in Iraq

//L’esperienza di Salam in Iraq

Assopita sulle rive dell’Eufrate in un’alba tiepida per la sabbia che si innalza da lontano. Baghdad, mille storie, mille speranze, una capitale che più che uno Stato rappresenta le sorti di una civiltà ormai decaduta i cui frantumi riempino musei di mezzo mondo e a cui dobbiamo la nostra civiltà.

Una città in cui sembra non esserci posto per l’ateismo in quanto l’identità religiosa , di per se l’Identità, sembra essere il passpartout di ogni cittadino.

L’esasperazione e l’enfatizzazione della religione acquistano, nella Baghdad di oggi, un triste anatema rispetto ad un ieri in cui il socialismo, seppur con mille contraddizioni, dava ben poco spazio alla religione nella politica. Oggi si assiste invece alla sempre più presenza della “politica della religione” che a differenza della “religione nella politica” non lascia di certo libertà. Già, libertà!

Che parola vana e vuota in un città distrutta per la ricerca di un qualcosa che non c’era e la perseveranza nel voler infliggere sofferenza a una città martoriata. Nonostante i tanti tentativi di fare di Baghdad una città americanizzata, oggi quello che resta evidente è la scelta di “formare” e “gestire le forze armate” mentre da Khademya, Amdamya e Mansu si respira un aria diversa, l’aria di un popolo arabo alla ricerca di una identità che tristemente si va sempre più identificando in quella religiosa. In questo contesto ci si domanda quale può essere il futuro per i dissidenti, per gli oppositori per i rifugiati che sognano il ritorno. Che futuro in uno Stato che porta ancora i segni degli spari sulle case dei Bahtisti come monito di chi non è desiderato, che futuro per una città in cui molta dell’elite culturale si trova in esilio. Lì’impossibilità di esprimere la propria idea politica, prima ancora di sapere quale essa sia, è di per se una limitazione che nega il sacrosanto diritto di un essere umano di esprimersi. Nonostante le speranze, il credere di poter tracciare un sentiero, se pur labile e fragile, per il ritorno dei rifugiati politici a noi vicino, alla fine di questa missione mi arrendo nel dire che il ritorno è ancora lontano. La diaspora dei tanti iracheni dovrà rimanere ancora tale e se si lascerà davvero spazio alla “religione nella politica” allora non si potrà nutrire nessun labile sogno, ma solo constatare la triste certezza che un paese socialista, non il primo non l’ultimo, è scivolato verso l’oscurantismo religioso. Altri esiliati lasceranno questa Baghdad perché l’emancipazione di molti giovani, di ambo i sessi, non trova facile spazio tra le icone religiose che campeggiano in ogni via, su ogni palo della luce. Non è l’ISIS a fare paura, ma l’idea che si possa basare il governo di uno stato sulla fede religiosa. Esempi nefasti ne abbiamo già molti, non ultimo la Palestina e qui, per molti versi l’immagine che torna alla mente è quella di Gaza occupata da Hamas che campeggia e che limita, se non elimina fisicamente, i compagni di Al-Fatha. E’ ormai giorno, il solo è alto e il traffico ha ripreso il suo ritmo incessante e mentre i clacson suonano forte è il dolore nel sapere che in Europa ci si domanda se accettare o meno i profughi prende il sopravvento e la rabbia di sapere che nessuno, prima di parlare, si spingerà mai fino qui per conoscere e capire cosa spinge un uomo dalla terra dei Babilonesi fino alle coste di un Mediterraneo sconosciuto.

2016-09-27T19:09:57+00:00